Genova - Ci sono meno di settecento metri fra la bella casa dell’armatore Bruno Musso, di fronte alla cattedrale di San Lorenzo, e il circolo GhettUp di vico Croce bianca, asilo e conforto dei trans, degli stranieri e degli ultimi del centro storico. Così lontano, così vicino: meno di dieci minuti a piedi e una distanza idealmente siderale fra i due poli estremi nella campagna elettorale di Marco Doria alle primarie di centrosinistra. Il salotto e il Ghetto, le anime di una città lacerata che nel suo nome si è ritrovata a fare lo stesso sogno: una politica migliore.
Il 4 febbraio l’armatore invita a casa per un cocktail pomeridiano un centinaio di amici: dirigenti e proprietari d’azienda, avvocati, professionisti, intellettuali, molti professori, un notaio. Vuole presentare Doria alla Genova bene. Il 12 febbraio, 709 persone lo votano nel seggio allestito nel Ghetto dimenticato anche dai raggi del sole.
«Roba che in vico Croce Bianca, dove non passa mai nessuno, sembrava di essere in via Luccoli a Natale», raccontano gli scrutatori. Qui, nel Ghetto, Doria tocca il record assoluto di consensi: 70,3%. Ci sono i dandy che abitano nelle soffitte più carine della cintura esterna, ma anche molti operatori dei servizi sociali, gli iscritti a Sel o a Rifondazione comunista e un gran numero di perfetti sconosciuti. Una dozzina i trans.
Negli anni ’60 Luciano Cavalli scrisse un saggio memorabile sulla “Città divisa”, ed era Genova con le sue case operaie di Cornigliano e Campi così distanti dalla borghesia mercantile del porto e degli scagni o dalla vecchia aristocrazia di Albaro. Ora c’è chi si illude che nel nome di Doria sia nata una nuova convergenza di tutta la città, una consonanza trasversale fra quel che resta della classe operaia e delle buone eredità investite, il Ponente e il Levante, uniti nella crisi e nel sogno di una mano pubblica appena appena più efficiente. Ma basta dare un’occhiata ai risultati per capire che non è così: in tutto il Ponente Doria ha racimolato meno di 3.500 dei suoi undicimila voti totali, anche se ha vinto a Pegli, Sestri, Cornigliano, Pontedecimo, Rivarolo. Il vecchio Pci delle fabbriche è in pensione e il candidato con la faccia nuova, che non piange alle manifestazioni contro i tagli, fa presto a emergere nel crollo di fiducia della base operaia. Una vittoria di risulta: le candidate del Pd sono semplicemente ignorate.
Però il 5 ottobre, al circolo Cap, c’erano anche i portuali ad ascoltare il mite professore di storia economica nutrito a latte e politica dal padre, il marchese rosso Giorgio Doria, primo della nobile schiatta a prendere una tessera del Pci. Ma come ha fatto un uomo per nulla incline alla demagogia e poco dotato di carisma naturale a raccogliere consensi fra i camalli della Compagnia unica e i padroni del vapore, un tempo contrapposti sul fronte del porto, quando proprio Bruno Musso si scontrò con Paride Batini per il diritto di sbarcare e imbarcare merci senza servirsi dei portuali?
«Karl Marx parlava di convenienza oggettiva - cita Musso -. Oggi noi e i portuali abbiamo la stessa convenienza oggettiva a uscire dal pantano della crisi. Ci basta che l’amministrazione pubblica funzioni un po’ meglio. Non ci sono conflitti d’interesse fra noi, quella battaglia non è più attuale». E se Doria dice no alla Gronda e no al Terzo valico, pazienza: «Io gli ho illustrato il progetto del Bruco, la ferrovia che porterebbe i container di Voltri oltre l’Appennino, e lui mi ha prestato ascolto. È già molto».
Il brivido del buon candidato, che si presenta senza un programma ma è pronto a sentire gli altri, attraversa i salotti genovesi. Alessandra Puri, figlia di quell’Ambrogio Puri che dal vertice dell’Italsider intratteneva buoni rapporti con il padre di Doria, lo invita nella sua casa di via Mylius, a Carignano: gli ospiti sono una sessantina, c’è anche qualche costruttore, e fa niente se Doria dice che non vuole più cemento in città. «Molti sono rimasti tagliati fuori negli anni di Pericu e della Vincenzi», spiegano ora i fratelli Alberto e Paolo Falabrino, architetti, e il riferimento è al monopolio delle coop e ai «progettisti di regime». Aldo Zerbone, re del catering e collezionista così eccentrico da farsi ritrarre a letto con alcuni dei suoi quadri, trascina Doria al mercato alle cinque del mattino. Lui lo segue.
Viene iscritto nei “doriani” anche Stefano Delle Piane, uomo di punta dell’economia genovese e membro del consiglio di gestione della Compagnia San Paolo. Ma pure Giorgio Israel, titolare della bottega che veste i borghesi eleganti, ha fatto sapere di essere un suo fan. E perfino il ramo non eretico della famiglia si commuove alla candidatura: al bancone della pasticceria Cavo in via di Fossatello hanno sentito Enrico Doria Lamba chiedere dove poteva firmare per il cugino.
Il candidato mite fa breccia nel mondo della sanità. Lo vanno a sentire infermieri, psicologi, impiegati delle Asl, ed è in un’altra bella casa del centro che nasce il patto pro-Doria fra i due medici più attivi nella campagna elettorale: Piero Iozzia, direttore del Distretto sociosanitario di Bolzaneto, e il savonese Massimo Costantini, oncologo all’Ist. Un brillante architetto di 35 anni, Luigi Berio, si offre per i manifesti.
C’era il rischio di arrivare alle primarie solo con l’appoggio di Sel e il voto di qualche notabile. Quando Gianluigi Fieschi tentò nel 1547 l’assalto al palazzo di Andrea Doria, suo antenato, il popolo si chiuse in casa e lasciò che la congiura dei nobili fallisse. Bisognava avvicinare il popolo, con educazione e senza strillare. E don Andrea Gallo era la persona giusta per arrivare alla città “vera”.
A fine settembre il prete di strada legge la prima intervista di Doria al Secolo XIX ed esclama in genovese: «Oua ghe sem-mo». E siccome “ci siamo”, gli telefona subito, gli passa i volontari, i centomila contatti di Facebook, il carisma che il prof non ha, infine la libreria di salita Santa Caterina come sede del punto d’incontro. «Ancora il 4 dicembre abbiamo organizzato una cena in canonica, non c’era la sede, Doria non aveva un sito e nemmeno un cellulare», racconta Domenico Chionetti, detto Megu, ex tuta bianca al G8, autista di don Gallo, anima della Comunità di San Benedetto al porto e angelo del Ghetto. «Ma lui ci ha conquistati tutti con il suo modo di fare: umile, in ascolto, mite, educato». Quando i ragazzi di don Gallo fanno volantinaggio, gli anziani si avvicinano e dicono: «È tanto una brava persona». Si sveglia Rifondazione Comunista, il segretario Sergio Triglia segue la campagna, tifa Doria anche Giordano Bruschi, il grande vecchio della sinistra. Ci sono i No Gronda e i No Tav: all’incontro con Doria al Teatro Modena prende la parola il padre di Gabriele Filippi, il ragazzo di Santa Margherita arrestato per l’assalto della Val Susa.
Le primarie non sono un’elezione per giovani. In vico Croce Bianca arrivano pochissimi minori di 35 anni. Silvio Ferrari, vera anima della candidatura, muove i liceali forte dei suoi anni di insegnamento nelle scuole genovesi, ma gli studenti universitari restano tiepidi. «È gentile, una persona amabile e disponibile. Ma non è suo padre e nemmeno Pisapia», sussurra un collega di facoltà. Nella sede di Economia dicono che Doria, professore associato, era l’uomo di fiducia dell’allora preside Lorenzo Caselli, e ricordano che fu lui a fare il suo nome a Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio, come membro del consiglio di indirizzo della Compagnia San Paolo. «Altro che outsider».
Con una campagna a costo minimo, fatta di volontari e passaparola, lontana dai partiti e dalla politica-show, i comizi a bassa voce, gli incontri con i comitati, i caffè e il flash mob finale, Doria ha già realizzato la missione principale che gli avevano affidato i suoi primi sette sostenitori, ora ridotti a sei per la morte di Paolo Arvati, signore della demografia: riaccendere lo spirito della sinistra anche negli elettori delusi dal Pd o da Marta Vincenzi e nei cittadini completamente disinteressati. Un miracolo.
«Ora credo che Marco saprà mediare sui contenuti del programma per costruire una coalizione, anche se non tratterà sulle questioni di metodo», si augura Luca Beltrametti, collega e sponsor della prima ora. È stata una vittoria netta, ma undicimila voti non sono un plebiscito. Tocca a Doria gestire il vantaggio, ben sapendo che in una città ancora divisa, malgrado tutto, il vento freddo della delusione fa presto a disperdere l’entusiasmo dei salotti. Figuriamoci quello del Ghetto.
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012 ... ndro.shtml