Mi pare che ci sia molta confusione su cosa sia l'economia (non parliamo poi di chi siano gli economisti) e quindi mi pare cosa buona e giusta introdurre questo testo, leggero e istruttivo, di un amico di Facebook.
Si svilupa in tre puntate e chissà, poi altre seguiranno.
Qui si parla di moneta, la grande sconosciuta.
Perle ai porci e monetine agli sciocchi. Ovvero, che cosa l’economia non è. /I
Franco Cazzaniga·Giovedì 25 febbraio 2016
Ammetto che il titolo di questo post può sembrare polemico, ma il contenuto non lo è, anche se qualche giustificazione si potrebbe trovare.
Stamattina mi sono imbattuto nell’ennesimo economista da bar, categoria che ha purtroppo profonde radici anche nell’accademia e giusto ieri un signore che aveva sostenuto un tempo un paio di esami aventi per oggetto l’economia dei mercati finanziari discettava delle sue profonde convinzioni in materia.
Per questo motivo, io che economista non sono, ho deciso di scrivere qualche riga ad uso dei miei amici di fb su quello che l’economia non è.
Come è sempre bene in ogni esposizione, è opportuno iniziare dai fondamentali, e questi non sono poi così lontani dal vivere quotidiano.
Quando al mattino ordiniamo un cappuccino e una brioche al bar sotto casa forse non ce ne rendiamo del tutto conto, ma si tratta di un’azione con profonde radici economiche. Quello che avviene in quel momento è uno scambio fra una merce - il cappuccino - e un pezzo di carta o di metallo. Il motivo per cui noi desideriamo il cappuccino ci è chiaro: ne apprezziamo il gusto e vogliamo berlo, ma perché il barista deve servircelo in cambio di un oggetto privo di un uso immediato?
Qui entra in ballo uno degli elementi più impalpabili dell’economia: l’utilità. Si tratta di qualcosa di simile all’Araba Fenice: che ci sia ognuno lo dice, ma che cosa davvero sia nessuno lo sa. La sua ambiguità giace nel fatto che non è un oggetto - cosa ovvia - ma nemmeno una relazione sociale. L’utilità nasce e vive dentro ognuno di noi, e, sebbene abbia dei vincoli, assume un’infinità di forme diverse, una per ogni desiderio realizzabile che noi e tutti i nostri simili possiamo accarezzare.
Ma c’è di più: la nostra utilità - la soddisfazione di berci un buon cappuccino - è immediata e diretta, mentre quella del barista è molto più vaga e indiretta. Nel momento in cui riceve la nostra moneta non ha bisogno di sapere già che uso ne farà. Può tranquillamente decidere in seguito: la sua è un’utilità differita, la nostra è immediata.
Qui, pur con tutte le cautele del caso, compare un fenomeno che spesso gli economisti sottovalutano: l’asimmetria di fondo che esiste fra il venditore e l’acquirente: chi acquista finalizza un’utilità, chi vende la mette in un limbo dalla quale potrà trarla in un momento opportuno.
Facciamo un attimo il punto: la prima cosa che abbiamo scoperto è che l’economia non ha alla sua base merce e oggetti fisici, ma qualcosa di molto meno ben definito, eppure reale: le “utilità” che ci scambiamo gli uni con gli altri. La seconda è che gli scambi mediati dalla moneta sono un ponte fra il presente e il futuro. La moneta non è una “cosa”, e nemmeno una merce, anzi, non è neppure una mera relazione sociale: è il mezzo attraverso il quale l’economia diventa un sistema dinamico.
La terza cosa è che lo scambio da noi effettuato non ha avuto spinte o costrizioni. Nessuno ci ha obbligati ad entrare nel bar, e nessuno ha obbligato il barista a servirci: sono stati atti puramente volontari. Né possiamo dire di essere più ricchi prima o dopo la consumazione: se fossimo più poveri, allora saremmo degli sciocchi irrazionali, e avremmo fatto meglio a non bere il cappuccino. Quello che abbiamo effettuato è stato uno scambio tutto nostro fra un desiderio e una moneta. Se il desiderio non fosse valso la moneta, allora ci saremmo fatti del male da soli.
La stessa cosa si può dire del barista: nemmeno lui è più ricco o più povero dopo lo scambio, ma, allora, dove vanno a finire tutti i discorsi sul valore? La verità è che gli scambi economici liberi da costrizione non possono che avvenire a “valore” costante: si tratta di scambi in equilibrio, alla faccia di tutti gli pseudoteorici che sostengono (incasinandosi) il contrario.
Ci sono un paio di importanti osservazioni da fare a questo punto. Dimentichiamoci per un momento dell’economia e puntiamo il nostro pensiero su qualcosa di molto più astratto: i sistemi dinamici, appunto.
Questi sono fenomeni che i fisici e i matematici hanno studiato in lungo e in largo. Per definirli, diciamo che un sistema dinamico è un sistema che ha una sua evoluzione, ovvero una traiettoria temporale, soggetta a dei vincoli. Il Sistema Solare ne è un esempio: i pianeti si muovono lungo orbite periodiche e prevedibili, e, in ogni istante, fra tutti i moti astrattamente concepibili solo uno è quello possibile. Tutti gli altri sono vietati dalle leggi della meccanica. È per questo motivo che possiamo sapere con sicurezza che ogni alba sarà preceduta e seguita da un tramonto, e che non dobbiamo preoccuparci della possibilità che in un brutto momento la Terra fuoriesca dalla sua orbita per andare a vagare nello spazio.
In economia ovviamente le cose non sono così chiare, ma il fatto che gli scambi liberi obbediscano a un equilibrio fa sì che, contrariamente a quello che pensano (scioccamente) molti, un’economia lasciata a se stessa non può prendere strade rovinose.
A questo punto molti potrebbero citare Marx per cercare di smentirmi. A costoro ricordo che pur con tutta la sua profondità di pensiero, Marx scriveva nella seconda metà del secolo XIX. Siamo nel ventunesimo, e forse è il caso di aprire gli occhi e capire che non l’aveva indovinata.
Ma proseguiamo nel nostro racconto. Il nostro barista ha un problema: nel quartiere c’è un piccolo boss che non paga affatto il cappuccino. Entra nel bar, beve e se ne va dicendo che il cappuccino è dovuto per la “protezione” che lui offre.
Questo è il secondo modo di distribuire beni e risorse: se il primo è il libero scambio, il secondo è la costrizione, e non c’è un terzo, checché ne dicano i teorici della bellezza delle tasse. O si chiede da pari a pari, o si requisisce usando la forza. Il fatto che poi si offra “protezione” non cambia l’aspetto fondamentale dell’equazione: abbiamo messo da parte l’equilibrio delle utilità per sostituirlo con il disequilibrio dell’imposizione.
Qui si impone un disclaimer: non sto sostenendo che le tasse sono comunque un furto o che lo Stato vada abolito. Gli economisti hanno creato tutto un apparato teorico sulle esternalità e su come trattarle. Quindi ci sono situazioni in cui l’uso della costrizione in economia è inevitabile. Dico solo che nessun ammontare di cosmesi ideologica può cancellare il peccato originale di ogni organizzazione statale. Gli Stati possono esistere solo grazie a qualche monopolio dell’uso della violenza, e non si può fondare nessun concetto di equità o di giustizia sulla mera forza.
Ma passiamo oltre: quello appena sopra è un inciso, mentre a me interessa di più l’effetto dell’imposizione sul nostro barista. Alla lunga non sarà più motivato a fare dei buoni cappuccini e la qualità del suo bar peggiorerà. Il fenomeno a cui assistiamo è la riduzione degli incentivi. I rapporti asimmetrici in cui un partner - di solito lo Stato, ma anche le organizzazioni criminali e la corruzione politica - forza l’altro a interagire fuori dall’equilibrio sono fonte di inefficienza.
Ora possiamo fare una seconda sosta di puntualizzazione: l’economia in un certo senso si riduce alla produzione di incentivi (i beni e i servizi che desideriamo) tramite incentivi. E non c’è una “base rocciosa” su cui tutto questo si fonda: come avrebbe detto la vecchia signora della storiella: “it’s incentives all the way down”.
Riassumendo, alla fine della prima puntata (e non prometto che ce ne sarà una seconda), possiamo dire che cosa l’economia non è dicendo di che cosa tratta: utilità, mezzi di scambio, equilibri locali e incentivi. Tutte cose impalpabili, ma molto, molto umane.