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Non esiste una cosa come il libero mercato

MessaggioInviato: 21/03/2015, 10:15
da franz
Non esiste una cosa come il libero mercato
Giovanni Caccavello
marzo 19, 2015

239 anni fa, il 9 Marzo 1776, Adam Smith, pensatore illuminista scozzese, pubblicò quello che ancora oggi potrebbe essere definito il più importante libro di economia politica: “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”.

Nonostante siano passati quasi due secoli e mezzo dalla sua pubblicazione, questa opera risulta essere ancora molto attuale non solo perché ci permette di capire alcuni aspetti chiave che giacciono alla base dell’economia, ma soprattutto perché mette in risalto la forza del pensiero classico liberale e pone l’accento su una tematica centrale dell’economia politica di oggi: i vantaggi economici derivanti dal libero scambio di merci, prodotti, capitale, conoscenza e tecnologia ed il ruolo dello Stato all’interno di un sistema economico basato sul libero mercato.

Insomma argomenti tutt’altro che estranei al dibattito politico attuale: in Italia Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e i movimenti sgangherati di sinistra ci ricordano tutti i giorni di quanto sia facile parlare alla pancia degli Italiani, gridando a favore di un ancora più spinto interventismo statale e contro il così detto “libero mercato”.

Come scrive giustamente il direttore dell’Adam Smith Institute, Eamonn Bulter, in un articolo uscito pochi giorni fa sul blog del think-tank liberale britannico, la “Ricchezza delle nazioni” non è semplicemente il libro cardine del pensiero economico moderno ma è anche l’opera in cui Adam Smith, fin dall’incipit, chiarisce subito alcuni concetti economici di fondamentale importanza.

Tra questi va sicuramente annotato il seguente: per aumentare la ricchezza nazionale, uno Stato non deve andare in guerra, cercando di conquistare altri popoli, non deve chiudersi in se stesso, cercando l’auto-sufficienza, e non deve nemmeno promuovere politiche mercantiliste, che hanno come obiettivo quello di garantire allo Stato stesso una “bilancia commerciale” positiva attraverso la riduzione delle importazioni e l’aumento delle esportazioni. Al contrario, una nazione deve molto più semplicemente ed armoniosamente scambiare i beni da lei creati con il resto del mondo, vendendo quei prodotti in cui essa ha raggiunto un vantaggio assoluto rispetto alle altre nazioni ed acquistando quelli che essa riesce a produrre meno efficientemente.

In conseguenza di ciò, Adam Smith giunge anche alla seguente conclusione: al fine di garantire una maggiore ricchezza ai propri cittadini, uno Stato non deve intromettersi nello scambio di beni tra le persone ma deve essere in grado di lasciar fiorire e prosperare un dinamico settore privato. Secondo il filosofo scozzese, infatti, i singoli individui che decidono di produrre dei beni e di scambiarseli non solo promuovono il loro interesse ma permettono all’intera società di trarne grossi vantaggi. Lo scambio delle merci, per Smith, deve quindi essere completamente “libero” dall’intervento dello Stato.

Analizzando il pensiero di Adam Smith attraverso questa chiave di lettura è possibile capire quindi il perché la “Ricchezza delle nazioni” sia, ancora oggi, considerato uno dei più grandi libri di economia mai scritti e perché, al contrario di quanto una larga parte dell’opinione pubblica e del mondo accademico crede, non esiste una cosa come il libero mercato.

Adam Smith, infatti, proponeva un sistema economico più libero dall’interferenza statale, soprattutto in ambito commerciale e sperava in uno Stato più efficiente proprio per garantire un benessere maggiore a tutti i cittadini. Giusto, per Smith, era il fatto che lo Stato intervenisse in ambito sociale garantendo una maggior uguaglianza tra i cittadini, ma senza che la scusa della redistribuzione della ricchezza e dei redditi, così come la spesa pubblica, trasformasse lo stesso Stato in un pozzo senza fondo, dove i soldi di coloro che producevano ricchezza e lavoro per la società venissero utilizzati dal governo in modo non meritocratico, inefficiente e non produttivo. Il ruolo dello Stato doveva essere limitato, ma al tempo stesso centrale per il giusto funzionamento dello stesso sistema economico.

Non a caso, leggendo la “Ricchezza delle nazioni”, si evince fin dai primi capitoli il vero pensiero di Smith, che mai nel libro riporta la parola “laissez-faire”: quando lo Stato promuove leggi inutili e sbagliate, cerca di intervenire nella sfera commerciale oppure cerca di favorire (per paura della concorrenza) alcune aziende bisogna subito andare contro queste decisioni e permettere al mercato di svolgere a pieno il suo ruolo di promotore di ricchezza. Al contrario, se lo Stato, per esempio, decide di investire nella difesa dei suoi cittadini, nello sviluppo di infrastrutture moderne o nell’educazione delle generazioni future, allora è giusto che esso possa agire.

Alla luce di tutto questo, ci si accorge che, in fin dei conti, la critica economico/politica di Adam Smith, non risulta essere poi così distante dalla critica odierna di molti liberali (un chiaro esempio è l’articolo di congedo, intitolato “The Case for Liberal Optimism”, con il quale l’ex direttore del “The Economist”, John Micklethwait, ha salutato i suoi lettori e dove si può notare come la realtà contemporanea proponga le stesse importanti battaglie contro cui i pensatori liberali si trovarono a combattere culturalmente tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.

Così come nel lontano 1776, lo Stato ancora oggi risulta essere troppo ingombrante. Paradossalmente, però, al tempo di Adam Smith la percentuale di spesa pubblica in termini di Prodotto Interno Lordo – nelle vesti di come la conosciamo noi oggi – era prossima allo zero (motivo per il quale Adam Smith sperava in uno Stato migliore).

Oggi, invece, la spesa totale delle amministrazioni pubbliche ha una media del 49,4% nei paesi dell’Euro-Zona e del 48,5% se invece si considerano tutti i 28 paesi dell’Unione Europea (l’Italia sorpassa entrambe le medie con una spesa totale pari al 50,5%): una media evidentemente troppo alta che ben poco ha a che fare con quanto scritto e auspicato da Smith.

Al tempo stesso, così come due secoli fa, lo Stato continua ad intervenire in ambito commerciale e lo fa senza porsi troppi problemi, alterando spesso l’andamento dei mercati e riducendo i possibili vantaggi che si possono trarre da un mercato veramente “libero”. In questo strano tipo di mercato (definito da molti “libero”) non è di certo il concetto di “concorrenza” a farla da padrone, ma al contrario ad imporsi sono proprio le eccessive regolamentazioni, le troppe leggi “pro-business” ed i sussidi anti-meritocratici e anti-concorrenziali. Esattamente gli stessi problemi criticati da Smith 239 anni fa.

Il mercato di oggi, non risulta quindi essere “libero” ma, al più, si potrebbe definire “aperto” e con molte falle. Alcuni settori strategici risultano ancora essere monopolizzati dai governi, altri risultano essere assai poco “liberalizzati” per favorire lobby sempre molto vicine ai politici, mentre altri ancora risultano essere tenuti sotto controllo dallo Stato attraverso inutili politiche di protezionismo, le quali tendono nel lungo periodo semplicemente a danneggiare il singolo consumatore, ovvero il singolo individuo, il cittadino medio. Tutto questo per la paura di tre parole chiave: concorrenza, libertà, meritocrazia.

Il concetto di “libero mercato” di Adam Smith non prevedeva l’annullamento dello stesso a discapito del monopolio, dell’inefficienza statale e delle relazioni amicali. Al contrario esso si ispirava alle capacità individuali, alle idee e al duro lavoro del singolo individuo. Oggi ci troviamo davanti a quello stesso problema ed è assolutamente necessario affrontare questa sfida, partendo dalla più triste delle realtà: “non esiste una cosa come il libero mercato”. Il libero mercato, infatti, è ancora, purtroppo, solo una lontana utopia liberale. Un’utopia diversa dalle altre, più pragmatica e meno idealizzata, che però mette al suo centro il benessere del cittadino medio, che fino ad ora, proprio a causa del mancato raggiungimento di tale obiettivo, è stato il vero grande sconfitto del “capitalismo clientelare” promosso dai governi nel corso di questi ultimi decenni.

http://www.immoderati.it/2015/03/19/non ... o-mercato/

Re: Non esiste una cosa come il libero mercato

MessaggioInviato: 21/03/2015, 11:05
da gabriele
Insomma, un articolo un po' populista. Non propone soluzioni ma enfatizza solo le cause di un problema, tutto in salsa italiana: "è colpa loro e non mia" :lol:

Re: Neanche una cosa come lo stato

MessaggioInviato: 21/03/2015, 14:26
da pianogrande
"....Il ruolo dello Stato doveva essere limitato, ma al tempo stesso centrale per il giusto funzionamento dello stesso sistema economico...."

Questa riga e mezza, secondo me, dice tutto quello che c'era da dire.

Il ruolo dello stato, arbitro tra le parti sociali, è insostituibile ma non deve essere "ingombrante" nel senso che lo stato non deve entrare in concorrenza diretta sul mercato o comunque non deve condizionare la libera concorrenza.

Lo stato deve intervenire negli ambiti dove il privato non può vedere il proprio interesse diretto oppure dove il diretto interesse del privato va contro gli scopi di quelle attività e quello è il motivo per cui tutti i cittadini devono pagare le tasse.

Una discussione, magari infinita ma utilissima, può essere quella volta alla identificazione di tali ambiti e dei conflitti di interesse che possono nascere.

Re: Non esiste una cosa come il libero mercato

MessaggioInviato: 21/03/2015, 15:22
da franz
gabriele ha scritto:Insomma, un articolo un po' populista. Non propone soluzioni ma enfatizza solo le cause di un problema, tutto in salsa italiana: "è colpa loro e non mia" :lol:

A' gabrie' :-) fammose a capisse! Se la causa è uno stato che occupa il 50% ed oltre della realtà economica di un paese, la soluzione è già di per se' espressa implicitamente e non bisogna essere una cima per coglierla.
Ok, sarà fuori dalla portata di un Grillo e di un Salvini ma gli altri dovrebbero farcela.
Magari approfittando del buon suggerimento di pianogrande: "Il ruolo dello stato, arbitro tra le parti sociali, è insostituibile ma non deve essere "ingombrante" nel senso che lo stato non deve entrare in concorrenza diretta sul mercato o comunque non deve condizionare la libera concorrenza."

Re: Non esiste una cosa come il libero mercato

MessaggioInviato: 22/03/2015, 13:13
da trilogy
Riporto una piccola parte del "Rapporto Paese 2015" dedicato all'Italia, pubblicato dalla Commissione europea in settimana.
Anche senza scomodare Adam Smith, prendendo ad esempio l'Italia, è evidente che c'è una degenerazione del ruolo e delle finalità dello Stato in economia, e questo produce per la collettività più danni che benefici.

[..]Le oltre 8 000 partecipate locali esistenti in Italia pesano sull'efficienza dell'economia e delle finanze pubbliche. La relazione del Commissario straordinario per la revisione della spesa censisce 7 726 partecipate locali, attive in tutti settori dell'economia. Circa il 35% delle 3 152 società che sono state esaminate dalla Corte dei conti nel 2012 hanno registrato perdite in almeno un anno fra il 2010 e il 2012. Secondo lo studio realizzato nell'ambito della revisione della spesa, circa 438 partecipate locali (598 comprese quelle in liquidazione) hanno registrato perdite annuali nel periodo 2010-2012, il che pone seri dubbi sulla loro redditività. La quota delle perdite aggregate sostenute dalla pubblica amministrazione è stimata a 1,2 miliardi di EUR all'anno, di cui circa il 25% sono registrate da partecipate locali che non forniscono servizi pubblici o altri servizi di interesse generale. Vi sono alcuni indici importanti di inefficienza:
i) almeno 3 000 partecipate locali hanno meno di sei dipendenti e in circa la metà delle partecipate locali il numero degli amministratori è superiore al numero dei dipendenti;
ii) il 44% delle partecipate municipali sono nella comproprietà di comuni con meno di 30 000 abitanti, il che indica la possibilità di realizzare importanti economie di scala attraverso il loro consolidamento;
iii) per un gran numero di partecipate locali la partecipazione dell'azionista pubblico è molto bassa (inferiore al 5% per circa 1 400 partecipate locali, al di sotto del 10% per circa 1 900 e al di sotto del 20% per 2 500), troppo bassa per il perseguimento dell'interesse generale.[..]

documento completo: http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/csr2 ... aly_it.pdf